[MT]Antonia Arslan - La masseria delle allodole[Ebook-Ita-Pdf-Romanzo]

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Description











Titolo originale: La masseria delle allodole
Autore: Antonia Arslan
1ª ed. originale: 2004
Anno di pubblicazione: 2004
Genere: Romanzo
Editore: Rizzoli
Collana: Scala italiani
Pagine: 234






Antonia Arslan (Padova, 1938) è una scrittrice e saggista italiana di origine armena.
Laureata in archeologia, è stata professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea all'Università di Padova.
È autrice di saggi sulla narrativa popolare e d'appendice (Dame, droga e galline. Il romanzo popolare italiano fra Ottocento e Novecento) e sulla galassia delle scrittrici italiane (Dame, galline e regine. La scrittura femminile italiana fra '800 e '900). Attraverso l'opera del grande poeta armeno Daniel Varujan — del quale ha tradotto le raccolte II canto del pane e Mari di grano — ha dato voce alla sua identità armena.
Ha curato un libretto divulgativo sul genocidio armeno (Metz Yeghèrn, Il genocidio degli Armeni di Claude Mutafian) e una raccolta di testimonianze di sopravvissuti rifugiatisi in Italia (Hushèr. La memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni).
Nel 2004 ha scritto il suo primo romanzo, La masseria delle allodole (Rizzoli), che ha vinto il Premio Stresa di narrativa ed è stato finalista del Premio Campiello e che tre anni dopo è stato portato sul grande schermo dai fratelli Taviani.
Nel 2009, sempre con Rizzoli, ha pubblicato il libro La strada di Smirne.




* Dame, droga e galline. Il romanzo popolare italiano fra Ottocento e Novecento, 1977.
* Dame, galline e regine. La scrittura femminile italiana fra '800 e '900, Milano, 1999.
* Hushèr. La memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni, Milano, 2001.
* La masseria delle allodole, 2004.
* La strada di Smirne, 2009.




È la saga degli Arslanian, di due fratelli che con le loro scelte differenti hanno forgiato per i loro figli due destini tragicamente opposti, di vita e di morte.
Il fratello maggiore, Yerwant, lascia l’Armenia da ragazzo, studiando a Venezia e diventando medico di successo a Padova, dove sposa una nobildonna e ne ha due figli. Il fratello meno avventuroso e più legato alle tradizioni familiari, Sempad, rimane nel villaggio natale in Anatolia, dove riveste uno status preminente, facendo della sua farmacia una finestra sulle novità occidentali. La sua numerosa famiglia incarna i valori e la cultura del popolo armeno, come l’ospitalità festosa, l’intraprendenza mercantile, la religiosità tollerante.
Dopo molti anni di lontananza, nel 1915 i due fratelli combinano una rimpatriata: Yerwant con la famiglia si accinge a tornare in Anatolia con due automobili, carico di doni e di nostalgia. Sempad arreda prestigiosamente la “masseria delle allodole”, la villa in campagna, preparando un’accoglienza memorabile. Ma lo scoppio della guerra spezza all’improvviso ogni progetto e consegna l’intero popolo armeno allo sterminio: i turchi, alleati dei tedeschi, attuano il mostruoso piano di eliminazione delle minoranze etniche.
Massacrati tutti i maschi, compresi i bambini, le donne armene, fra cui la moglie e le figlie di Sempad, saranno deportate e trasferite ad Aleppo in un esodo atroce e spietato, destinate a un’inesorabile “soluzione finale”. Grazie all’avventuroso intervento di amici fedeli, per le figlie di Sempad si apre in extremis una via di fuga e il romanzo, teso come un thriller ed emozionante come una storia d’amore, si conclude, in un salto temporale, con la voce della narratrice, la nipote Antonia, che intrecciando storia e poesia, colori, suoni e profumi, ha saputo incidere la sua vicenda familiare nella memoria collettiva.


Incipit:
PROLOGO

Prendemmo la strada sotto i portici per andare al Santo. Era il 13 di giugno, il giorno del mio onomastico. Pioveva, e io non volevo muovermi, ma il nonno Yerwant, il patriarca a cui nessuno disobbediva, aveva detto: "È ora che la bambina conosca il suo santo. È già quasi troppo tardi, ha cinque anni. Non sta bene far aspettare i santi. E dovete portarcela a piedi". Lui ci avrebbe raggiunto con la sua automobile Lancia, e con Antonio, l'autista.
Così, percorsi con la zia le due lunghe strade porticate che conducono alla basilica, con la zia Henriette, piccola piccola, dal gran naso armeno e dai lucidi capelli neri a caschetto, che aveva molti segreti e se li teneva stretti, non portava mai tacchi bassi e non permetteva che aprissi la sua borsetta. Neppure lei era contenta dell'ordine del nonno: aveva caldo, aveva "quasi" mal di testa, pensava che andare alla basilica nel giorno del Santo fosse poco fine, cosa da provinciali e da turisti, temeva di perdermi, si angosciava per nulla, come sempre.
Zia Henriette era una sopravvissuta al genocidio del 1915. Creatura della diaspora, non aveva più una lingua madre. Parlava molte lingue, compresa la sua, l'armeno, in modo legnoso, innaturale: come una straniera. In tutte faceva patetici sbagli, e non volle mai raccontare la storia della sua sopravvivenza. Aveva dimenticato anche la sua età (in Italia, quando sbarcò, era così minuta e patita che le tolsero due o tre anni) Ma ogni sera, a casa nostra, veniva a cena portando vassoi di biscotti alla moda austriaca, enormi vasi di yogurt fatto in casa, paklavà colmo di noci e di miele: e la sua presenza riempiva la casa di memorie oscure.
Io l'amavo moltissimo, e mi facevo viziare. A casa sua i dischi di Edith Piaf andavano tutto il giorno, e si poteva ballare con le scarpette di panno. Sicché mi facevo trascinare verso il Santo con pigra curiosità, sperando in un gelato, o in una medaglietta, o in un libro colorato, chissà. Per me, ero aperta a tutti i doni - e mi aspettavo un dono, fiduciosamente.
E quando arrivammo allo sbocco della via del Santo nella immensa piazza, ebbi il mio dono. La pioggia era cessata da qualche minuto, e improvvisamente le nuvole si spostarono, come un sipario, e un raggio caldo di luce e di sole fece della piazza un teatro, dove innumerevoli figurine colorate cominciarono a sgrullarsi e a chiudere gli ombrelli, affrettandosi verso l'ingresso.
Tante Aide, Nives, Esterine, Gigie si chiamavano allegre e urgenti, accompagnate da bambini compunti vestiti da piccoli frati, e da uomini atticciati, seri, addobbati di nero; nel centro, un gruppo solenne e ieratico si faceva notare per i chiassosi costumi, le gonne lunghe e i fieri capelli delle donne, i mustacchi erti degli uomini. Fermi, fissavano concentrati il grande portone socchiuso della basilica.




Antonia Arslan nel suo libro, il suo primo libro, racconta la storia di una famiglia armena, la sua famiglia, che nel maggio 1915 viene distrutta: gli uomini e i bambini maschi sono trucidati dai turchi e per le donne inizia un'odissea segnata da marce forzate, umiliazioni e crudeltà. E' una storia che esemplifica l'inizio della diaspora che porterà gli Armeni ad abbandonare la loro terra e a disperdersi nel Mondo, conservando nel cuore il ricordo costante e la struggente nostalgia per una patria e una felicità perdute.
La scrittrice infatti ha raccolto le varie testimonianze e documenti solo recentemente, per parlare di un genocidio avvenuto all'inizio del secolo e sconosciuto ai più. Il narratore, a parte il prologo in cui è interno (l'autrice parla di se stessa) è esterno ed onnisciente, si identifica con l'autore; questo è dato dalla necessità della scrittrice di rendere la tragedia del viaggio e della sua famiglia, rea solo di essere armena e ricca; una profonda malinconia traspare dai commenti che appaiono talvolta qua e là nel testo. Il risultato è un'impalpabile tristezza che avvolge il lettore fin dalle prime pagine. La geografia è esplicitata; si tratta della Turchia, ma il villaggio è generico, evidentemente un topòs per indicare la serenità della vita che scorre leggera. Nella seconda parte, invece, è esplicitato il punto verso cui sono diretti, e verso la fine si cita la città di Aleppo. Tutto questo serve a dare concretezza alla seconda parte del romanzo, che ha testimonianze minori (pochi sopravvissuti, probabilmente traumatizzati e nulla di scritto) ed assume quindi una dimensione quasi onirica, di sogno, che sospende la storia in una specie di doloroso limbo fatto di strada e violenza ingiustificata. L'intero romanzo si svolge nell'arco di circa un anno, con una cronologia precisa nella prima parte e che come abbiamo sottolineato sfuma nella seconda parte. La vicenda si sovrappone alla prima guerra mondiale, che scoppia nell'agosto del 1914.
E' un racconto duro di una pagina terribile della Storia contemporanea, da leggere insieme nelle famiglie, per spiegare ai giovani, per non perdere la memoria di questi avvenimenti in cui la natura umana da serena e semplice, si fa oscura e brutale e annienta i propri figli, avvenimenti che ogni volta si spera non possano ripetersi mai più, eppure fatti recenti dimostrano il contrario. Ricordare dunque è la nostra Speranza perché il Futuro porti rispetto per la Vita di ogni essere umano.





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