Titolo originale: Pal-utcai fiùk
Titolo italiano: I ragazzi della Via Pal
Autore: Ferenc Molnar
1ª ed. originale:
Data di pubblicazione: 2014
Genere:Romanzo
Editore: Giunti Junior
Collana: Classici tascabili
Traduzione:Mario Brelich
Pagine: 320
Ferenc Molnár nacque a Budapest il 2 gennaio 1878 al n° 83 di viale József, figlio di un medico ebreo della media borghesia. Fece i suoi studi secondari nella città natale per poi trasferirsi in Svizzera, a Ginevra, dove iniziò gli studi di diritto. Lì si avvicinò alle teorie di Lombroso e cominciò a scrivere dei brevi racconti; compose anche un valzer che intitolò Printemps. Rientrato in patria cominciò a collaborare, a meno di venti anni, a uno dei più importanti giornali ungheresi del tempo, il ?Budapest Napló” (Diario di Budapest).
Nel 1900 pubblicò il suo primo romanzo: Az éhes varos (La città affamata). È un romanzo di argomento ebraico e il suo protagonista, Pál Orsovai, è stato definito iI"Julien Sorel ungherese". Il romanzo successivo fu Egy gazdátlan csonák története (1901) (Storia di una barca senza padrone) che racconta la storia dell'amore impossibile di una ragazzina per l'amante della madre. Nel 1907 pubblica I ragazzi di via Pál, mentre nel 1910 Liliom, il suo capolavoro teatrale che fu anche trasformato in un musical a Broadway. Molnár infatti è stato un grande autore teatrale, che venne molto rappresentato anche in Italia.
Ferenc Molnár era un uomo molto elegante e attraente, che passava le sue estati al Lido di Venezia a corteggiare le belle donne. Non ebbe però una vita sentimentale molto fortunata: si sposò tre volte con delle donne bellissime con le quali ebbe dei rapporti molto tempestosi e infelici. Si unì alla sua fedele segretaria Wanda Bartha con la quale fuggi, per problemi razziali, nel 1939 negli Stati Uniti. Questa vicenda venne raccontata dallo scrittore nel romanzo, in parte autobiografico, Isten veled, szívem (1947) (Addio, amore mio). Wanda Bartha si tolse la vita in un albergo di New York.
Molnár mori il 3 aprile 1952 a New York dopo essersi convertito alla religione cristiana. Ferenc Molnár faceva parte di quella borghesia ebraica assimilata come Lukács, Körmendi, e l'architetto Lechner, da lui così ben descritta nel già citato Az éces város e in Andor.
Drammi
1902 - A Doktor úr
1904 - Józsi
1907 - Il diavolo (Az ördög)
1909 - Liliom
1910 - A Testor
1912 - A Farkas
1916 - Úri divat
2916 - A fehér felho
1916 - Farsang
1920 - Il cigno (A hattyú)
1921 - Színház
1923 - A vörös malom
1924 - Az üvegcipo
1926 - Giochi al castello (Játék a kastélyban)
1926 - Riviera
1928 - Olympia
1929 - Egy, ketto, három
1930 - A jó tündér
1931 - Valaki
1932 - Harmónia
1935 - Nagy szerelem
1937 - Delila
1949 - Panoptikum
Opere in prosa
1901 - Az éhes város
1901 - Egy gazdátlan csónak története
1907 - I ragazzi della via Pál (A Pál utcai fiúk)
1908 - Muzsika
1916 - Egy haditudósitó naplója
1938 - A zöld huszár
1950 - Útitárs a számuzetésben – Jegyzetek egy önéletrajzhoz
La via Pal, in una Budapest di settant'anni fa, è al centro di una guerra fra bande. Niente di sanguinoso, sono bande di ragazzi. Poichè nella via Pal c'è un largo spiazzo dove si può giocare, fra palizzate e cataste di legname, la bande delle Camicie Rosse comandata da Feri Ats vuole conquistarla. I ragazzi della via Pal, capitanati da un quattordicenne calmo e autorevole che si chiama Boka, sono tutti ufficiali; l'unico soldato è il più piccolo, Ernesto Nèmecsek. Sarà proprio Nèmecsek, nella battaglia decisiva, a dare la vittoria ai suoi atterrando il capo avversario. Ma è malato e muore. Tutto è inutile, perchè lo spiazzo libero di via Pal scompare. Il proprietario l'ha venduto, vi costruiscono un palazzo. Non si gioca più.
Incipit:
I CAPITOLO
Quando finalmente, alle dodici e tre quarti, nell'aula di fisica la fiamma incolore del becco di Bunsen si tinse di un bel colore verde smeraldo, si udirono le note di un organetto provenienti dalle viuzze adiacenti la scuola.
Il professore era riuscito a dimostrare che il miscuglio impiegato per l'esperimento aveva appunto la proprietà di colorare di verde la fiamma, ma gli studenti avevano perso ogni concentrazione: in quella splendida giornata di marzo la musica entrava allegra con la brezza di primavera.
Era una canzone popolare ungherese, ma, sentita suonare così, a distanza, da quell'organetto barbaresco, la si sarebbe detta piuttosto una marcia militare il cui ritmo, come tutte le cose avvincenti, affascinava letteralmente i ragazzi in attesa della fine delle lezioni. Alcuni di loro sottolineavano il proprio gradimento con larghi sorrisi.
Ora altri rumori si aggiungevano all'organetto. Attutiti, dalla vicina piazza giungevano i colpi secchi dei campanelli dei tram; voci confuse e scalpicciare di passi affrettati si udivano nella via sottostante; dalla finestra di una piccola casa di fronte alla scuola usciva un tenue canto femminile, una voce tremula, come di chi piangesse con abbandono.
Nel becco di Bunsen la fiamma verde continuava a brillare vivamente. Ma solo gli alunni dei primi banchi indugiavano ancora a guardarla con interesse; gli altri vagavano con lo sguardo fuori della finestra sui tetti delle case vicine e più lontano sull'orologio della chiesa protestante la cui lancetta si avvicinava incoraggiante al numero dodici, o impiegavano gli ultimi minuti nei preparativi per l'uscita.
Boka, per esempio, stava chiudendo accuratamente il suo rosso calamaio tascabile, dotato di un portentoso meccanismo per cui non perdeva una goccia d'inchiostro se non quando era in tasca.
Csele raccoglieva i fogli sparsi dei suoi libri. Poiché era un elegantone non si portava appresso tutti i volumi occorrenti: ne staccava di volta in volta le sole pagine che gli servivano per le lezioni del giorno e alla fine le sistemava ordinatamente nelle numerose tasche del vestito.
Csonakos nel suo glorioso ultimo banco sbadigliava e si dimenava come un ippopotamo annoiato.
Weisz si stava rivoltando le tasche per farne uscire le numerose briciole: miseri avanzi del panino sgranocchiato di nascosto durante tutta l'ora di scienze.
Gereb stropicciava i piedi contro il pavimento, forse per accentuare la sua intenzione di alzarsi e uscire.
“I ragazzi della via Paal”, scritto da Ferenc Molnar e pubblicato a puntate sotto forma di novelle settimanali nel 1907 presso un’affermata rivista di Budapest, è diventato – a ragione – uno dei classici della letteratura per ragazzi nel solco del filone avventuroso sentimentale; infatti, le tematiche e i valori universali che il romanzo esprime hanno trasformato il volume in breve tempo in un piccolo capolavoro, ideale anche per un pubblico più adulto di lettori.
L’amicizia, la lealtà, il senso dell’onore, la bellezza del momento spensierato dell’infanzia, (a cui segue una maturità più malinconica), il sentimento patriottico sono solo alcuni degli innumerevoli temi sviscerati dal romanzo, attraverso la parola diretta dei personaggi, ragazzi ma, in fondo, già piccoli uomini.
In un modesto quartiere, realmente esistito e legato alla geografia dei ricordi d’infanzia di Molnar, all’angolo tra Via Maria e Via Pal, nell’Ungheria di fine Ottocento e inizi Novecento – in piena Belle Epoque ma con i venti della bufera della Guerra alle porte – si snoda la vicenda entusiasmante, avventurosa e, se vogliamo, anche drammatica di un gruppo di ragazzi del liceo, divisi in due bande rivali: I ragazzi della Via Pal, capeggiati dal saggio Boka, e Le Camicie Rosse, guidate dal fiero Franco Atz.
Il desiderio di giocare all’aria aperta, in una città già nel pieno del processo dell’industrializzazione e del boom edilizio, (che richiama da vicino il triste scenario di cemento e squallore delle nostre metropoli), fa sì che ben presto i due schieramenti – organizzati al loro interno come veri e propri eserciti in miniatura – giungano allo scontro finale; e proprio in questo momento emerge la figura – eroica e coraggiosa – dell’unico “soldato semplice”: Ernesto Nemecsek, che darà la vita per i suoi compagni e per l’ideale in cui crede, nella celebre scena in cui atterra il nemico Atz, gettandolo nella polvere.
Ci si affeziona fin dalle prime pagine a questi ragazzi, uniti da un sincero sentimento e dal possesso di valori che nella società odierna stanno impallidendo dietro i falsi miti del consumismo e dell’apparenza. Eppure, quegli ideali senza tempo, basati sull’onestà e sulla sincerità, a ben vedere non sono totalmente sopiti: vanno solo risvegliati, acutizzati e ripresi nei ragazzini di oggi, (a cui il testo in definitiva era rivolto fin dal momento della sua genesi), così sensibili nelle loro fragilità, gli unici a cui consegnare la nostra società nella speranza di un prossimo riscatto.
Per questo è così importante veicolare la diffusione e la conoscenza del romanzo, anche oggi, a più di cent’anni di distanza dalla prima pubblicazione, farlo entrare nelle scuole, sui banchi, riportare in vita i cari Gereb, Atz, Boka, Nemecsek, Csele, Barabas e tutti quegli adolescenti che, non più muti, contagiano con la loro vitalità, freschezza e genuinità i giovani d’oggi, sì da trascinarli – fosse anche solo per qualche ora – lontano dagli strumenti di svago quotidiani (computer, ipod, playstation) - che a lungo andare isteriliscono e omologano uniformando le naturali inclinazioni personali - permettendo loro di sperimentare, invece, un universo ricco di sfumature e contrasti di cui innamorarsi e nutrirsi. Difatti, se si ha a disposizione l’arcobaleno, chi preferirebbe una pellicola in bianco e nero?
Pizzicando queste corde e suonando i tasti giusti, ci renderemo in breve conto che non è poi così difficile appassionare alla letteratura i ragazzi di oggi, attraverso la rilettura critica e consapevole, per esempio, di un classico di tutti i tempi, evidenziando come dietro la drammaticità del finale sopravviva un profondo messaggio di speranza, luce, gioia e riscatto per tutte le nuove generazioni.
Seguiamo, quindi, noi educatori, la massima di Quintiliano che, nell’Institutio Oratoria, insegnava: “I giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere”, risvegliando i sentimenti alla base della nostra società, in modo da imprimerle, nel futuro, un viscerale rinnovamento che, dall’interno, possa propagarsi – come cerchi in uno stagno – in tutti i suoi strati, fino a quelli più esterni.
E, nel farlo, ricordiamoci di non smettere mai di sorridere, perché dietro la morte del “biondino”, si cela la luce di un animo forte e buono, fiaccola ad illuminare la modernità, una rinascita insita nell’eroismo dei piccoli gesti quotidiani: dell’accoglienza del diverso, dell’integrazione dell’emarginato, della condivisione con chi non ha. Solo tutto questo ci renderà davvero ricchi, di una ricchezza di cui nessuno mai potrà privarci: in una sola parola della Vita. Della Vita, però, con l’iniziale maiuscola, ben diversa dal semplice sopravvivere – che è un po’ un annaspare procedendo col pilota automatico.
Voglio concludere, quindi, con un invito: impariamo a Vivere, dando importanza alle briciole, ai sorrisi e ai sogni, perché solo in questo modo potremo costruirci intorno un mondo bello, che non ci soffochi con le sue stesse pareti e i suoi limiti, ma ci apra sempre orizzonti infiniti e luminosi.